E’ morta dopo cinque giorni di coma cerebrale, dopo quella cena a base di sushi in un ristorante di Savignano, zona Iper. Una fitta improvvisa, appena uscita dal locale. E poi la crisi respiratoria, per lei che già soffriva di asma. Khadija Oushi, 33 anni, viveva a Sant’Angelo di Gatteo, una frazione che ora piange per lei e si interroga su come sia potuta accadere una cosa simile.
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Ad essere indagata per omicidio colposo è la titolare del ristorante, una donna cinese che risponde così: «Non sappiamo se sia venuta da noi a mangiare. Io sono tranquilla, ma ora se ne occupano gli avvocati». Lo studio è di Reggio Emilia, perché quel ristorante fa parte di un grande franchising che fa capo alla città emiliana. Quarantadue ristoranti sparsi da Roma a Torino, nati in pochi anni e che per ora non avevano mai avuto problemi di questo tipo. «Quel ristorante serve 400 pasti al giorno ed è aperto dal febbraio 2015, faccia un po’ i conti di quanti pasti ha servito…», fa il puntol’avvocato Giulio Cesare Bonazzi. La ricostruzione della vicenda è semplice. La donna, insieme al marito, dice di avere cenato al ristorante di Savignano la sera di Pasqua, il 16. Poi la crisi e il ricovero in ospedale. Anche il marito dice di essere stato male, ma che dopo aver rimesso è tornato in salute. Ma la donna no, per lei non c’è stato nulla da fare. Morta dopo il coma.
Immediatamente sono scattati i controlli dei Nas dei carabinieri, che già nei giorni scorsi hanno visitato il ristorante e ritirato i prodotti da analizzare. Intanto però si aspetta l’esito dell’autopsia, perché, come spiegano dall’ufficio legale del ristorante, non si esclude neanche che la causa possa essere legata alle operazioni dei sanitari. «Il pm (Laura Brunelli di Forlì; ndr) ha chiesto al perito di verificare che non sia stato commesso qualche errore da parte dei sanitari, dato che la signora soffriva di asma». Questa la linea della difesa per ora. Che tra l’altro non conferma e non smentisce il fatto che la coppia fosse proprio in quel locale, come sostiene il marito.
«Questa è una catena che opera un controllo maniacale sul pesce – continua l’avvocato Bonazzi –. Viene analizzato tutto in sede e poi, come si dice in gergo, immediatamente messo in ‘abbattimento’». Si tratta di uno strumento (contenitore tipo freezer) che consente di portare l’alimento a temperature tra i -20 e – 40°C molto velocemente, il pesce deve restare a queste temperature per un tempo variabile dalle poche ore fino a più giorni a seconda dello strumento e della temperatura. Solo con questa procedura si distruggono le larve degli organismi pericolosi. «E il pesce stesso proviene da uno dei maggiori venditori italiani di Milano, non posso fare il nome», garantisce il legale.
Per capire quindi se sia stato proprio il pesce crudo tipico giapponese ad avere causato la morte della donna si dovranno aspettare i risultati sia dell’autopsia sia delle analisi sul cibo effettuate dai Nas. (Fonte)
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